Lingua madre

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Da un quaderno di appunti di mia madre scopro di essere stata precocissima nell'apprendimento del linguaggio; a sette mesi pronunciai le prime parole e a un anno e mezzo parlavo correntemente. Sebbene i miei genitori fossero entrambi italiani, ho sempre avuto la sensazione di essere bilingue visto che durante l'infanzia fui costretta a riconoscere e imparare due idiomi totalmente diversi.

Nonno Mario, il "babbo della mi' mamma" era livornese e, sebbene si fosse trasferito a Palermo negli anni venti, non abbandonò mai l'accento toscano. Uomo intelligente e colto, continuò a leggere e studiare fino a poco tempo prima di morire, due mesi dopo avere compiuto cent'anni.

Oltre che appassionato studioso e geniale inventore di macchinari complicatissimi, era un profondo cultore della lingua e pretendeva che tutti fossero capaci di esprimersi correttamente. Non capiva perché i siciliani, abituati a dire zzuccaro, zziu e zzappa, quando parlano in italiano trasformano le z dure in dolci; andava in bestia se osavamo raddoppiare la b di problema, la g di Parigi o aprire le e di questo e quello e aveva una vera e propria idiosincrasia per gli errori grammaticali e sintattici, così frequenti tra chi parla traducendo letteralmente dal dialetto.

Dotato di un eccezionale senso dell'humor, per insegnarci la proprietà di linguaggio aveva escogitato un sistema infallibile, antesignano del moderno "metodo globale". Su un calepino, che chiamava ironicamente florilegio, prendeva nota degli strafalcioni che sentiva in giro e periodicamente ce li leggeva ad alta voce ridendo come un matto, insegnandoci in questo modo a non commettere gli stessi errori per non essere presi in giro.

Di contro, nella casa dove vivevo con i nonni paterni, palermitani da svariate generazioni, la lingua ufficiale era il siciliano stretto. Imparai così a riconoscere termini che, con un suono del tutto diverso da quello che pronunziava la mamma, designavano lo stesso oggetto ma appresi anche locuzioni, modi di dire e proverbi che la maggior parte delle mie compagne di scuola ignorava del tutto.

Con gli anni l'approfondimento di questa seconda lingua, che mio padre continuò a intercalare all'italiano fino alla fine dei suoi giorni, mi fece scoprire il fascino e l'intraducibilità di alcune delle sue espressioni. Il siciliano è la sintesi di una magnifica commistione tra la lingua nazionale e quelle dei popoli che nel corso dei secoli occuparono la Sicilia. Ricercando le etimologie appresi che numerosi vocaboli che si riferiscono all'agricoltura e in generale alla campagna sono di discendenza araba come saia, salamòia, zàgara, fùnnacu, lumìa, gèbbia, balàta, giarra, maccu, lemmu, giuràna, burnìa, giuggiulèna mentre la maggior parte di quelli riferiti alla casa, consòl, sciffoniera, tirabusciò, verdò, ritrè sono di origine francese e che lo sono anche le parole 'insèmmula, arrèri, addumàri, travagghiu, ciarmuliàri, vuccirìa. Scoprii che il termine acetiera non significa boccetta per l'aceto ma oliera, essendo un vocabolo di derivazione spagnolo-catalana come manta, muccatùri, atturràri, anciòva, abbacàri e addunàrisi. Trovai che cafuddare, catu e cutra hanno etimologia latina e che l'interiezione usata giornalmente da mia nonna Titì, Sciàtri e matri, che in italiano pressappoco vuol dire "cose dell'altro mondo!" non è altro che un'invocazione a Gesù e la Madonna (Soter, mèter) di origine greca come vastàsu e macàri.

L'interesse per le origini del nostro dialetto mi fu inculcato dal professore Rosario La Duca che oltre che celebre storiografo siciliano è anche un appassionato studioso di glottologia.

Saro, così lo chiamava papà, durante l'inverno veniva a trovarci quasi tutte le domeniche, alcune volte restava a cenare con noi ma di norma arrivava all'ora del tè e andava via prima che si andasse a tavola. Aspettavo con ansia che la settimana finisse perché incontrarlo era una festa e se oltre a lui venivano a farci visita altri amici dei miei genitori con i loro figli, piuttosto che rintanarmi in camera a giocare con i miei coetanei, trascinavo anche loro ad ascoltare il professore che raccontava, come se fosse una favola, la storia di Palermo attraverso piccoli aneddoti, gli stessi che anni dopo ritrovai leggendo "La città perduta".

Seduto "in pizzo" sul bordo della sedia, tenendo le spalle curve e il tono di voce basso, accompagnava la narrazione con piccoli gesti delle mani e sorrisi appena accennati, di tanto in tanto si fermava rapito dai suoi pensieri, poi riprendeva la storia e continuava per ore incantando gli ascoltatori.

Oggi il dialetto siciliano è cambiato, la gente non lo trasmette ai propri figli per una sorta di vergogna senza giustificazioni e a nessun insegnante viene in mente di accennare alla nostra lingua se non per correggere le “forme dialettali”. La globalizzazione priverà le nuove generazioni siciliane del cuore della propria identità, la lingua madre

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